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NOIQUADRI di Pietro Virgilio (Cutensis)
Pensieri del dr. IACCI proposti dall'amico Marchili di
Confederquadri
che inseriamo alla pagina 13 del sito con evidenza nella home
page.-
L’INTERVISTA
Paolo Iacci
è
vicepresidente esecutivo del Gruppo Pride
- Informatica e telecomunicazioni. Insegna Organizzazione
e gestione delle risorse umane all’Università
statale di Pavia ed è vicepresidente di Aidp, Associazione
italiana per la direzione del personale.
L’importanza
dei
quadri
nell’economia
di oggi
Un ruolo sempre più sotto i riflettori all’interno delle organizzazioni.
Fisionomia ed evoluzione di una figura professionale
frequente soprattutto nelle piccole e medie imprese.
In occasione della nascita di Cibiesse parliamo di ruolo
e formazione del middle management con Paolo Iacci, vicepresidente
di Pride e di Aidp
L
o snellimento delle strutture
organizzative
delle grandi aziende e l’improrogabile necessità
di competenze manageriali nella piccola
e media azienda italiana portano a un ruolo di maggiore
responsabilità dei quadri direttivi. Abbiamo
posto a Paolo Iacci alcune domande sull’evoluzione
e la crescente importanza di questa figura professionale.
_
Qual è oggi il ruolo
per i quadri nella media impresa
nazionale?
Partiamo da un dato quantitativo. Il rapporto Censis
del 2006 ci dice che nell’ultimo anno i quadri
sono aumentati dell’8,5%, mentre i dirigenti sono
diminuiti del 14,1%, attestandosi i primi a quota
461.000 e i secondi a 1.206.000, su una forza lavoro
di 24 milioni 451mila unità. La centralità dei
quadri, quindi, è già nei numeri: da soli, costituiscono
circa il 5% della popolazione attiva e sono
in costante crescita. A conferma di ciò va notato
un ulteriore elemento: i dirigenti in Italia sono
concentrati al Nord e nelle imprese medie e grandi.
Se ne deduce che al Centro e al Sud e nelle piccole
e medie imprese, in mancanza della figura del
dirigente, il vero alter ego dell’imprenditore è proprio
il quadro. Peraltro, al Nord e nelle medie e
grandi imprese il numero dei quadri è comunque
in crescita, anche se con percentuali meno importanti.
_
Come spiega questa "esplosione quantitativa"?
Ritengo sia riconducibile a due fattori. Innanzitutto
la ripresa economica si sta dispiegando con
alcune caratteristiche via via crescenti: forte perturbabilità
dei mercati, accentuata innovazione di
prodotto e servizi collegati, orizzonte di periodo
sempre più breve, margini sempre più ridotti, globalizzazione
di mercati, materie prime e forza lavoro.
Davanti a queste innovazioni, il tessuto imprenditoriale
italiano, fatto di piccole e medie imprese,
è in difficoltà e quindi richiede sempre più
competenza e flessibilità a prezzi contenuti. Il
middle management si sostituisce al livello dirigente
non solo quindi per un mero risparmio da
parte del sistema imprenditoriale, ma anche per
motivi di ordine oggettivo. In secondo luogo, le
caratteristiche dei mercati richiedono competenze
in continuo aggiornamento e una professionalizzazione
del middle management sempre più accentuata:
i quadri aumentano non solo a scapito
dei dirigenti, come abbiamo appena visto, ma anche
a scapito degli impiegati che, infatti, nello
stesso anno, crescono solo del 2,9%, attestandosi
a quota 6.723.000. Si tratta di un numero assai
modesto rispetto ai quadri, se si pensa che
vent’anni fa il rapporto tra quadro e impiegato era
di circa dieci volte inferiore.
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Quale tipo di
competenze e quale carriera si prospetta
per i quadri nell’odierno contesto economico-
organizzativo?
In questi ultimi tre decenni abbiamo assistito
all’obsolescenza dei modelli organizzativi centrati
sulla specializzazione funzionale, la stabilità del posto
di lavoro, la chiara definizione delle posizioni,
la pianificazione di lungo periodo, la centralizzazione
del controllo, della gestione delle informazioni
e dei conseguenti processi discrezionali. Le
organizzazioni si potevano consentire un approccio
di dominanza nei confronti dei due mercati di
riferimento, quello dei consumatori e quello del lavoro.
Di entrambi i mercati si potevano prevedere
bisogni, necessità e sviluppi. Si era inoltre in grado
di offrire prodotti e servizi in grado di soddisfarli.
I protagonisti tendevano a modellare i comportamenti
d’acquisto in stretta relazione con gli stimoli
offerti dal sistema delle imprese.
Oggi i rapporti di forza si sono ribaltati: sono i bisogni
dei mercati la variabile indipendente e i modelli
organizzativi quella dipendente. Per il capo intermedio
questo significa incertezza sia sul mercato
del lavoro sia all’interno della gerarchia aziendale.
Infatti, l’impresa si concepisce sempre più come
un sistema di flussi d’attività che generano valore
coinvolgendo clienti, fornitori e altri partner
attraverso relazioni stabili di scambio, collaborazione
e servizio. Tutto ciò determina una minore
"leggibilità" dell’organizzazione e quindi una maggiore
difficoltà da parte dei capi intermedi a percepire
in maniera univoca e stabile la propria posizione
organizzativa.
Le aziende, inoltre, stanno rinunciando a fare "tutto
in casa". La scelta di concentrarsi sul core business
e di potersi riorientare velocemente sul mercato
stanno determinando l’abbandono di un modello
autocentrato a favore di un modello a rete, dove
sempre più vengono esternalizzate tutte le attività
non core. Nelle imprese sta quindi lentamente sfumando
la pregnanza del rapporto gerarchico-funzionale,
poiché questo sempre più rischia di comportare
rigidità non più accettabili. Perciò le aziende
stanno procedendo verso un certo decentramento
delle decisioni, una maggiore diffusione della comunicazione,
l’arricchimento delle competenze professionali
e un orientamento dei sistemi di ricompensa
che passa dalle posizioni ai risultati.
L’attenuazione del peso della linea gerarchica ha
determinato uno stimolo a una più decisa integrazione
orizzontale tra le funzioni. L’effetto di questi
mutamenti sul capo intermedio è stato duplice: da
un lato ha perso prestigio e potere gerarchico, dall’altro
lato vi è stato, in genere, un allargamento
orizzontale della sua area di responsabilità.
Il capo intermedio, da questo punto di vista, è oggi
l’emblema di una distonia più generale che sta
attraversando tutto il mondo del lavoro.
In questo, quindi, la carriera non consiste solo
nell’avanzamento gerarchico e verticale: il quadro
intermedio matura un complesso di competenze
che lo rendono maggiormente capace nel far convergere
le proprie necessità e aspirazioni con quelle
del mercato del lavoro. L’organizzazione non garantisce
più di essere in grado di occuparsi pienamente
della crescita del singolo, sapendone riconoscere
ed esaltare le qualità personali. Il patto che
storicamente ha legato gli individui all’impresa
non regge alle turbolenze del mercato. L’organizzazione
da sola non costituisce più una difesa in
grado di proteggere da tutte le vicissitudini della
vita professionale. Le cosiddette "culture aziendali
forti" tendono a mostrare tutti i loro limiti. Le
imprese lasciano a casa anzitempo le persone, non
riescono ad essere sempre eque, i vertici sono più
di prima facilmente sconfessati. La relazione che
legava per lungo tempo organizzazione e individuo,
dove il singolo dava fedeltà e delegava la propria
crescita, si sta modificando in una mera transazione
di più breve periodo dove si scambia retribuzione
e prestazione erogata. Di pianificazione
delle carriere si parla sempre meno, i career plan
hanno obiettivi di breve periodo, le tavole di rimpiazzo
si scontrano con organigrammi troppo mutevoli.
La carriera diventa così "proteiforme": il
processo è gestito sempre più dal singolo e sempre
meno dall’organizzazione d’appartenenza. La
persona sceglie il proprio percorso per soddisfare
al meglio le inclinazioni personali, cercando di perseguire
un benessere che è sia sociale, oggettivo,
sia personale, soggettivo. Si tratta di una piccola
rivoluzione copernicana rispetto al tradizionale
modo d’intendere la carriera ma, più in generale,
di percepire il rapporto tra il singolo e la propria
organizzazione.
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Come potrà evolversi il futuro del ruolo del quadro?
E quali necessità ha per muoversi al meglio
nel mondo del lavoro?
Il quadro intermedio sarà sempre più contraddistinto
da una marcata poliedricità: già oggi, talvolta,
il responsabile è tale solo in forma transitoria e
in ogni modo l’accento del suo ruolo è spostato sul
possesso di competenze particolarmente critiche,
mentre in altri casi è al contrario un gestore puro
di risorse umane o tecniche o, ancora, finanziarie.
L’excursus alle sue spalle è assai più variegato che
non dieci o vent’anni fa. In molti casi il modello di
riferimento della sua carriera non è più quello lineare
di una volta, ma è stato più "turbolento", con
vari passaggi, da un’azienda all’altra o addirittura
con esperienze differenti nel proprio passato, come
lavoratore autonomo o in settori differenti. Il
cosiddetto lifelong job, il mestiere di tutta una vita,
inizia ad essere il ricordo di un passato e il suo
posto è preso dal concetto di employability – l’occupabilità,
ossia la rivendibilità delle competenze
personali. Più che delegare all’azienda il proprio futuro,
occorre migliorare costantemente la capacità
di muoversi in modo autosufficiente all’interno del
mercato del lavoro. Poter disporre di competenze
costantemente adeguate, assumere comportamenti
professionali in linea con le proprie aspettative,
ma anche in sintonia con le richieste del mercato
di riferimento, implica un lungo e costante lavoro
su se stesso, cui i nostri predecessori non erano abituati.
Questo nuovo sforzo consente al capo di essere
maggiormente fruibile sia sul mercato del lavoro
esterno, sia all’interno della stessa azienda. Il
grado di variabilità degli assetti organizzativi e professionali
interni è assai più alto di una volta.
L’assunzione di responsabilità da parte del capo, al
fine di mantenersi sempre adeguato sul versante
professionale, è una grande ricchezza sia per il singolo,
sia per la sua organizzazione. Il rapporto tra
singolo e azienda trova, quindi, proprio sul tema
del costante aggiornamento professionale, un nuovo
terreno d’accordo e di mutuo interesse. Mentre
una volta l’azienda erogava formazione in relazione
ai suoi meri interessi d’aggiornamento dei propri
quadri, ora si assiste a una nuova richiesta da
parte dei singoli che vogliono difendere il loro valore
sul mercato del lavoro, interno ed esterno
all’organizzazione d’appartenenza.
Al concetto di lifelong job si è sostituito quindi il
nuovo concetto di lifelong learning. L’inevitabilità
di un sistema d’apprendimento continuo trova
riscontri unanimi: il Consiglio europeo di Lisbona
del 2001 lo definisce "come l’insieme di tutte
le attività intraprese, durante tutta la vita, con
l’obiettivo di aumentare le conoscenze, le competenze
e le abilità individuali in prospettiva sociale,
di lavoro e professionale" e invita con forza tutti
i governi europei a sostenerne lo sviluppo. Naturalmente
il concetto vale per tutti, ma trova una
sua particolare pregnanza e urgenza per il capo intermedio,
per il suo essere professionalmente impegnato
sul doppio fronte dell’aggiornamento
delle conoscenze tecniche e dell’affinamento delle
capacità gestionali.
Se, quindi, ci immaginiamo per il middle management
un futuro di crescente turbolenza del suo iter
professionale, ne discendono in linea diretta almeno
due bisogni primari: copertura professionale
nei periodi di passaggio – talvolta forzoso – da
un’impresa a un’altra e la possibilità di essere un
"oggetto" sempre appetibile sul mercato del lavoro
attraverso un continuo aggiornamento tecnico,
manageriale e imprenditoriale. La formazione
all’imprenditorialità, come ulteriore assicurazione
per il middle management, costituisce una novità
a mio parere da introdurre.
_
milano ottobre 2007